Non solo Apple Store. A Milano, nel centro commerciale più grande d’Europa, Il Centro, ha aperto il primo store monomarca (Mi Store). Così debutta sul mercato italiano Xiaomi. Il colosso cinese della telefonia da 18 miliardi di fatturato, in sette anni è diventato il quarto produttore a livello globale, dietro a Samsung, Apple e Huawei. Il gruppo è praticamente un esordiente in Europa, ma ha già venduto 2,4 milioni di smartphone, pari a una quota del 5,3%. L’espansione nel Vecchio Continente (20 store finora) è iniziata sei mesi fa in Spagna. La presenza in Polonia, Grecia e Francia (avviata in concomitanza con la presentazione di Milano) fa parte della scalata globale. I piani italiani sono ambiziosi: l’obiettivo è di aprire entro due anni 18-20 Mi Store su tutto il territorio. Di più: i cinesi vogliono assumere fino a 200 persone. Nel team del progetto c’è un giovane italo-cinese, Francesco Zhou Fei. “Il 26 maggio c’erano 8mila persone fuori dal negozio, neanche fosse il lancio dell’IphoneX”, dice in una intervista all’Agi. Qualcuno era lì dalle 4 del mattino di due giorni prima. Il cospicuo fan club (i Mi Fan) non ha nulla da invidiare alla community di Apple: la pagina Facebook conta già oltre 26 mila follower.
Non solo smartphone. Xiaomi (Sciaomi) entra nel mercato italiano con oltre 120 articoli tra cellulari ed Ecosistema: 'device' connessi IoT (Internet of Things). Esordisce in particolare con due smarphone – il top di gamma della serie Mi Mix 2S ed il Redmi Note 5 sono tra i più venduti – insieme al monopattino elettrico. La forza di questa azienda fondata nel 2010 a Pechino dal presidente Lei Jun (49 anni) con un gruppo di otto persone (sei ingegneri e due designer), è nella capacità di offrire prodotti di alta tecnologia a prezzi molto più bassi della concorrenza. Tecnologia super avanzata e prezzi accessibili: così Xiaomi ha conquistato il cuore dei fan. Il motto aziendale è “prodotti sorprendenti a prezzi onesti” e “innovazione per tutti”.
Il brand più amato dagli smanettoni
Mi Mix 2S “è strabello”, dice Francesco, “come prestazioni é paragonabile ai top di gamma di altri brands ma costa la metà (499 euro)”. Il top di gamma spicca per l’utilizzo di materiali pregiati come la ceramica, il display da 5,99 pollici FullHD+ (2160 x 1080 pixel), processore Qualcomm Snapdragon 845. “Lo apprezzano soprattutto i consumatori che capiscono di tecnologia”. Non male per un’azienda nata facendo sistemi operativi (MIUI). La strategia? Non tanto fare utili sulle vendite (i margini sui prodotti non superano il 5%) ma puntare sulla vendita di un ecosistema di servizi con al centro lo sviluppo dell'Internet of things: un settore che promette guadagni stellari a lungo termine per l’azienda cinese (Qui l’articolo di Repubblica).
L’azienda che vuole replicare il modello degli Apple Store si è già da tempo smarcata dalla forzata similitudine con la mela morsicata. Lei Jun non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per Steve Jobs; furono i media cinesi a coniare per Xiaomi la definizione di “Apple d’Oriente”. Ma i paragoni finiscono qui. Del resto nel 2013 Xiaomi aveva già superato Apple nelle vendite in Cina (qui le differenze tra Apple e Xiaomi).
La storia di Francesco Zhou Fei
Francesco Zhou Fei ha 36 anni ed è general manager dei Mi Store in Italia. Cioè, gestisce gli store fisici di Xiaomi. Lo store di Milano è il punto di partenza di un progetto iniziato a febbraio. Il secondo è già pronto per l’inaugurazione, aprirà a fine giugno, sempre a Milano. “Non posso dirvi ancora dove”. Ha la bocca cucita, Francesco. Ordini dell’azienda: prima della imminente quotazione alla Borsa di Hong Kong, i vertici hanno imposto il silenzio stampa. Il Team di Milano, composto da 20 persone, per metà italiani e per l’altra sino-italiani (“volti noti della comunità cinese della capitale lombarda”), età media 30 anni, guiderà un massiccio piano di assunzioni: si prevedono 200 nuove posizioni, considerato che servono 10-12 risorse per ogni negozio.
La carriera di globe-trotter inizia a 5 anni, quando con la famiglia cinese si trasferisce in Italia. Gli bastano pochi anni per diventare milanese a tutti gli effetti. Dopo la laurea alla Bocconi in economia aziendale, Francesco si affaccia nel mondo del lavoro. Sono anni in cui le aziende italiane guardano a Oriente. Scopre di avere un’abilità che gli tornerà utile in futuro: cavalcare l’onda giusta. Sale a bordo di Crif, azienda bolognese con piani di espansione nella Terra di Mezzo.
In un paio d’anni Francesco si ritrova catapultato a Pechino, dove apre l’ufficio della casa madre. Nel 2012 decide che è tempo di cambiare aria. “Avevo notato che gli espatriati costano un sacco di soldi e non capiscono niente del mercato, anche se parlano cinese, come me. Oggi le aziende lo hanno capito e assumono soprattutto manager locali, molto più qualificati di prima; i pochi espatriati rimasti sono quelli davvero super bravi”. Per capirci qualcosa Francesco fa un sacco di gavetta. Apre un ristorante italiano vicino Central Park con un gruppo di soci, lo chiamano “Milano Cafè” (“un nome non particolarmente originale” ironizza). “Ho capito davvero come avviare un business in Cina”.
Francesco è vorace, impara e si butta nell’esperienza successiva. Vende il ristorante a un cinese: “Se lo compra il proprietario del supermercato adiacente, che aveva deciso di diversificare il business” (Che ci azzecca? “Non so, so che ha chiuso dopo un anno”). Con il ricavato della vendita Francesco va a fare un MBA alla Peking University. Ora si sente davvero corazzato: è diventato “più cinese”. Forte delle sue capacità e di una solida rete di contatti, Francesco fa il primo passo nella internet economy. Sviluppa l’espansione in Cina di una start-up di Londra, “sorta di Linkedin per laureandi e laureati”, e poi arriva la proposta di aprire negozi fisici di Xiaomi. Francesco cavalca l’onda al contrario. “Due anni fa capii che il trend si era invertito; ora erano le aziende cinesi a puntare all’internazionalizzazione”. Francesco intercetta la prima ondata di aziende cinesi che andavano all’estero. E oggi eccolo qui .