Nell’era del capitalismo digitale ci vuole un’economia civile, dice Zamagni

Marx è stato superato dalla Storia, ma anche il capitalismo ha vissuto momenti migliori. È ora di trasformare, non di riformare. A dirlo in questa intervista all’AGI Stefano Zamagni, l’economista dell’Università di Bologna che ha affiancato Benedetto XVI nel redigere il testo della Caritas in Veritate. A marzo Papa Francesco lo ha nominato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze

Professore, che succede? Il capitalismo sembrava una macchina destinata a durare in eterno, invece per qualcuno sta esalando l’ultimo respiro.

“No, il capitalismo non sta morendo. A differenza di altri sistemi può modificare le sue caratteristiche nel tempo. Dura dal XVII secolo, ed è passato in questo tempo dal capitalismo commerciale a quello agricolo e poi a quello industriale, mentre oggi abbiamo il capitalismo finanziario”.

Che è l’ultima.

“No! Dal 2001 è iniziata la sua fase digitale. Il problema è che ad ogni passaggio di fase si pensa che sia finita la Storia, oggi come in passato. Invece siamo già in una nuova fase iniziata da quasi un ventennio. Solo che a tutt’oggi ancora abbiamo capito poco delle caratteristiche di questa nuova forma di capitalismo, e delle sue conseguenze”.

Non può essere lasciato solo?

“La transizione digitale in corso tende al monopolio e all’oligopolio. Riflettiamo su un dato: il valore dell’economia immateriale adesso supera di gran lunga quello dell’economia materiale. Solo che le nostre società non sono arrivate in tempo a regolamentare la dimensione immateriale dell’economia, e questa è una cosa che ha il suo impatto sull’economia e la democrazia. Se si prendono cinque imprese come Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft vediamo che insieme hanno una capitalizzazione di borsa maggiore del PIL del Portogallo. Di un intero Stato europeo. Ripeto: la questione non è solo economica e non può non avere conseguenze sulla democrazia”.

La Fine della Storia che in realtà è Fine delle Democrazie. Da Francis Fukuyama a Jean-Francois Revel.

“Guardi, tutto questo non è inevitabile. Il problema è che le classi politiche finora hanno dormito sonni tranquilli, ritenendo che il digitale fosse solo una questione di tecnologia. Invece è qualcosa di trasversale, che passa dalla pura tecnologia all’economia e alla politica. Qualcuno inizia a reagire: l’Ue ha varato il suo Codice Etico, la Camera dei Lord si è pronunciata. Ma siamo ancora agli inizi: gli Usa non si sono mossi, anche se certo lo faranno. L’Europa comunque al momento ha una posizione isolata, e questo è il cardine del problema”.

Ma se il modello economico liberista mostra tutte le sue rughe, non sarebbe il caso di tornare al Keynes che ci permise di uscire dalla crisi del ’29?

“In economia esistono due grandi paradigmi, più un terzo. Quest’ultimo, quello marxista, è stato abbandonato dopo la fine del sistema sovietico. Nemmeno la Cina lo vuole più. Gli altri due sono l’economia politica e l’economia civile. Il primo risale ad Adam Smith …”

… un po’ vecchiotto.

“Non vada di fretta, sennò sbaglia un’altra volta. Adam Smith è della fine del Settecento. Ma sappia che il modello dell’economia civile di mercato, che è tutto italiano, risale al 1753. In quell’anno l’Università Federico II di Napoli istituì prima al mondo – ripeto: prima al mondo – una cattedra di economia civile. Era la Napoli di Antonio Genovesi”.

E di Giovan Battista Vico. Siamo alla vigilia della Rivoluzione Francese.

“Poi ci arriviamo. Per il momento consideri solo che il modello dell’economia politica è divenuto egemone per via della prima Rivoluzione Industriale. Ora, tra l’economia politica e quella civile ci sono molti contatti, se non sovrapposizioni. Entrambi infatti sono per l’economia di mercato. Keynes rientra perfettamente nella prima, è inglese. Ma è una persona estremamente colta e intelligente, e capisce le aporie del mercato. Non conosce l’economia civile, sviluppatasi in un ambiente cattolico mentre lui è protestante, ma capisce che il mercato deve essere corretto e regolato. È uscito in questi giorni un libro, la riedizione degli scritti di Keynes a cura di Giorgio La Malfa: un libro importante e utile che ribadisce questo aspetto. Non dimentichiamoci, però, che il modello proposto da Keynes da solo oggi non è più in grado di affrontare le nuove sfide”.

Lei stesso, Professore, ha detto che comunque diversi punti di contatto ci sono.

“Anche casi in cui le due scuole si sovrappongono. Ma tenga in considerazione che fra noi e la crisi del ’29 ci sono la globalizzazione e la quarta Rivoluzione Industriale, quella dell’economia immateriale. Poi c’è un’altra differenza: l’economia politica si basa sull’assunto antropologico dell’homo oeconomicus e sulla metafora della mano invisibile del mercato che alla fine tutto riequilibra. L’economia civile parte invece dall’assunto antropologico dell’homo reciprocans e si appoggia sul principio di reciprocità oltre che su quello dello scambio”.

Chiaro, ma così siamo solo sul livello dei principi astratti.

“In concreto questo vuol dire che per l’economia classica l’importante è la massimizzazione del bene totale, del Pil. Per l’economia civile invece il fine è la realizzazione del bene comune. La prima considera l’economia un’attività che nulla ha a che vedere con l’etica e la politica, la seconda esige che tra le tre sfere ci sia un dialogo continuo.”

Per Keynes l’economia non era solo una questione di numeri.

“Appunto: l’economista non è un tecnico, e l’economia è una scienza morale. Eppure si sentono dire delle cose terribili, come sulla Tav. Tipo: l’analisi costi-benefici è una procedura di analisi neutrale. Ma come si può? Aggiungo che il paradigma dell’economia politica è insufficiente su un altro punto. Il modello di ordine sociale che privilegia si basa su due pilastri, lo Stato e il mercato. L’economia civile, invece, pensa a tre pilastri: Stato, mercato e comunità. In Keynes il mercato è governato dallo Stato, il che non basta. Ormai lo Stato non è più in grado di controllare un mercato divenuto globale”.

Ma se lo Stato è insufficiente, a chi ci si affida?

“Alla comunità, alla società civile organizzata che si regolamenta e reinventa la politica. Nel suo ambito la persona agisce e vede riconosciuta la sua capacità propositiva”.

Bene, sembra che lei abbia in mente qualcosa come il Terzo Settore

“Il punto non è quello di tutelare il Terzo Settore, ma di riconoscergli la sua specificità. La riforma del 2017 va in effetti in questa direzione, passando dal regime concessorio a quello del riconoscimento. Il Terzo Settore è il luogo della reciprocità. Il mercato è il luogo dello scambio e lo Stato il luogo del comando. La reciprocità, invece, è la traduzione nella pratica del principio di Fraternità”.

Ecco che c’entrava la Rivoluzione Francese …

“Mica solo quella. La Fraternità – la cui prima formulazione esplicita risale al francescanesimo –  è qualcosa di più profondo della solidarietà, concetto con il quale viene spesso confusa. Da parte loro i cattolici, nel loro complesso, sono per natura di cose portatori di una impostazione che va verso l’economia civile”. 

Quindi?

“Quindi non si può fare a meno del loro ruolo politico, del loro apporto. Il problema piuttosto è quello della forma di questo apporto. L’idea di un partito cattolico com’era la Dc è superata. Ma dire che dovrebbero disperdersi a mo’ di lievito nelle altre formazioni politiche è non capire i termini della questione. È la regola democratica: se in un partito rappresenti il 3 o il 5 percento sei irrilevante. Questo è il frutto, inevitabile, del frazionamento. Si deve creare non tanto una rete, che è piuttosto il metodo da seguire, quanto una convergenza su un progetto ben definito. Non in nome della fede, ma di un progetto che sia accettabile da parte di tutti, laici e non laici, di trasformazione della società. Bisogna trasformare, non riformare. Le riforme sono per i tempi ordinari; questi sono tempi straordinari. Ce lo ricorda sempre Francesco”.

Agi