Scoppia una nuova polemica tra Washington e Pechino ma questa volta non riguarda i dazi sulle merci, al centro dei recenti colloqui bilaterali finiti (per ora) con un buco nell’acqua. Nel mirino ci sono 36 compagnie aeree straniere, prevalentemente statunitensi, alle quali il governo cinese ha chiesto di rimuovere qualsiasi riferimento a Macao, Taiwan e Hong Kong – che Pechino considera parte integrante del suo territorio – come Paesi indipendenti. In una nota emessa sabato scorso, la Casa Bianca ha accusato il governo cinese di “assurdità orwelliana”, scrive l'agenzia Reuters.
Immediata la replica di Pechino, giunta domenica per bocca del portavoce del ministro degli Esteri Geng Shuang, il quale ha ricordato alle aziende straniere che fare business in Cina ha un prezzo: obbedire alle leggi cinesi, “rispettare la sovranità cinese e l’integrità territoriale” e non ferire “i sentimenti del Popolo cinese”.
“Non importa cosa dicano gli americani”, scrive puntuto Geng Shuang sul sito del suo ministero. “Nulla può alterare il fatto oggettivo che c’è una sola Cina nel mondo, e che Hong Kong, Macao e Taiwan sono parti inseparabili del territorio cinese”.
Sebbene il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, abbia più volte sottolineato il rapporto di amicizia che lo lega al presidente cinese, Xi Jinping, le tensioni commerciali tra le due prime economie del pianeta sono ben lontane da una soluzione. Cina e Stati Uniti sono divisi dalla minaccia di dazi sulle esportazioni, e dalle accuse di Washington di sussidi alle industrie statali e di trasferimento forzato di tecnologia a danno dei gruppi statunitensi.
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Sotto la lente di ingrandimento soprattutto il deficit commerciale statunitense, che la delegazione Usa giunta, a Pechino la settimana scorsa per le due giornate di colloqui bilaterali, ha chiesto di tagliare di 200 miliardi entro il 2020. Le posizioni restano distanti ma il dialogo va avanti, recitava lo stringato comunicato diffuso dall’agenzia Xinhua al termine del round di trattative sulle dispute commerciali.
Nessun accordo ma salve le apparenze: Yang Jiechi, top diplomat e membro del Politburo del Pcc, si è intrattenuto al telefono con il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, domenica scorsa, per parlare di rapporti bilaterali che sono entrati in una “fase importante”, stando a quanto ha riferito il ministero degli Esteri. Non è chiaro, scrive il New York Times, se questa telefonata sia giunta a seguito del comunicato emesso dal governo americano.
Stando alla Casa Bianca, il governo cinese ha spedito una lettera all’indirizzo delle compagnie aeree, incluse quelle basate negli Stati Uniti, con la richiesta di cancellare ogni menzione di Taiwan, Hong Kong e Taiwan, che, agli occhi cinesi, rischia di diffondere una versione falsificata dell’unità territoriale (dai siti internet ai menù).
Hong Kong, ex colonia britannica tornata alla Cina nel 1997, gode dello status di regione amministrativa speciale ed è regolata dal principio “Una Cina, due sistemi”. Nel 2014 è stata teatro del movimento degli ombrelli (Occupy Central), contrario alla proposta di riforma avanzata da Pechino per l’elezione della massima autorità di Hong Kong: la più grande manifestazione mai avvenuta nell'isola, durata 79 giorni, e il più grande movimento di protesta contro il governo cinese dai tempi delle proteste di piazza Tian’anmen, a Pechino, nel 1989.
Gode dello stesso status anche Macao, ex colonia portoghese, tornata sotto la sovranità cinese nel 1999.
A tendere i nervi di Pechino è soprattutto la questione di Taiwan. La Cina arrivò ai ferri corti con gli Stati Uniti, quando Donald Trump, all’inizio del suo mandato presidenziale, aveva messo in discussione il principio di “unica Cina”, sfiorando la crisi diplomatica. Fortemente difeso dal governo cinese, esso prevede che tutti i cinesi che vivono da un lato o dall'altro dello Stretto di Formosa (che divide la Cina continentale da Taiwan) appartengono a una sola Cina.
"Taiwan è parte della Cina", nonostante si sia dichiarata indipendente nel 1949, quando le forze nazionaliste del Guomindang, sconfitte dai comunisti, si rifugiarono sull'isola, proclamando la Repubblica di Cina. Da allora, entrambe le sponde dello stretto si definiscono un'unica Cina, con Pechino che punta da sempre a riannettere quella che considera "l'isola ribelle", e Taiwan, una democrazia sin dal 1990, che difende la propria autonomia. Le tensioni con Taipei si sono riaccese da quando nel 2016 è salita al potere l’attuale presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, marcatamente indipendentista.
La Cina punta alla “piena riunificazione” entro il 2050. Le rivendicazioni di Pechino verso l’ex Formosa, spiega Limes, si sono rinfocolate a fine marzo, quando gli Usa hanno adottato il Taiwan Travel Act, che “incoraggia” lo scambio di visite tra funzionari di alto livello statunitensi e taiwanesi. Sulla scia del summit inter-coreano, Tsai ha manifestato il desiderio di incontrare Xi Jinping per raggiungere "pace e stabilità".
I segnali di una crescente pressione delle autorità cinesi sulle compagnie straniere erano già emersi a gennaio scorso, quando il governo aveva oscurato il sito della catena di hotel Marriott, con l’accusa di aver indicato Tibet, Hong Kong, Macao e Taiwan come paesi separati. Marriott aveva immediatamente pubblicato scuse ufficiali. Il Quotidiano del Popolo, il massimo giornale cinese, affidò la posizione ufficiale a un editoriale dal titolo "Per fare affari in Cina, non farti nemico il popolo cinese".