Quando il primo ministro Fumio Kishida è arrivato a Glasgow, all’ultimo momento, dopo essersi assicurato la vittoria alle elezioni generali in Giappone, ha tenuto un discorso piuttosto cauto sul raggiungimento della neutralità carbonica. L’obiettivo resta quello di raggiungere le zero emissioni entro il 2050, come già annunciato dal suo predecessore Yoshihide Suga, e cercare di arrivare al 46 per cento di emissioni in meno rispetto ai livelli del 2013 entro il 2030.
Ma Kishida ha scelto di non dare una roadmap, e forse di non fare promesse che non sa se potrà mantenere. Piuttosto ha messo a disposizione dei finanziamenti per i paesi asiatici: fino a 10 miliardi di dollari di fondi in cinque anni per aiutare i paesi in via di sviluppo asiatici a compiere il lungo percorso verso l’azzeramento delle emissioni di carbonio. La diplomazia dello staccare l’assegno, tipica del Giappone, colpisce ancora. Poi Kishida ha annunciato uno stanziamento di cento milioni di dollari per la ricerca, che da un lato cercherà di perfezionare una nuova generazione di energia alimentata a idrogeno o ad ammoniaca, e dall’altro studierà nuovi modelli energetici compatibili con la crescita economica.
Il governo di Tokyo sta investendo tantissimo nella ricerca della batteria perfetta: sulla scia del successo del premio Nobel per la chimica del 2019, il professor Akira Yoshino, che negli anni Ottanta inventò la prima batteria agli ioni di litio ricaricabile, il Giappone registra più brevetti di qualunque altro paese nel settore delle batterie, e oggi esistono decine di università che ospitano scienziati internazionali e altrettanti nei centri di ricerca delle grandi industrie.
Il tentativo di essere leader
Dal punto di vista della politica internazionale, la terza economia del mondo vorrebbe trasformarsi nel leader della lotta ai cambiamenti climatici in Asia. Condivide questa aspirazione con la seconda economia del mondo, la Cina, cioè il paese delle contraddizioni: è il più grande emettitore di gas serra al mondo, il gigante di cui pochi si fidano, ma allo stesso tempo è anche il leader mondiale nel campo delle rinnovabili e il presidente Xi Jinping ha già da qualche anno lanciato la sua strategia verde, per limitare l’inquinamento e trasformare la Repubblica popolare cinese nel paese più responsabile nel campo dei cambiamenti climatici.
Gli occhi del mondo sono dunque puntati sull’Asia quando si tratta di riduzione delle emissioni: in quella parte di mondo, composta da 58 paesi e 4,4 miliardi di persone, si stima che la domanda energetica raddoppierà entro il 2030, e già oggi rappresenta circa il 53 percento della domanda globale. Per non fermare la crescita economica dei paesi più piccoli ma trainanti nella regione dell’Asia-Pacifico, Cina, Giappone e Corea del sud sanno che bisogna puntare su un sistema energetico efficiente ma che limiti le emissioni.
Il caso giapponese, tra i paesi industrializzati dell’Asia, è il più interessante per capire come si muove la politica e quali soluzioni concrete sono sul tavolo, al di là degli slogan occidentali. Perché il paese del Sol levante è privo di risorse naturali, è dipendente dal carbone, e lo è soprattutto dall’11 marzo del 2011, il giorno della triplice catastrofe – terremoto, maremoto, e incidente alla centrale nucleare di Fukushima – che ha cambiato tutto.
Nei giorni successivi alla tragedia, progressivamente tutte le centrali atomiche giapponesi sono state spente. Da grandi protagoniste della crescita economica nipponica negli anni Ottanta e Novanta, la scarsa trasparenza sui sistemi di sicurezza – dimostrata dall’incapacità della Tepco, l’azienda che gestisce ancora oggi l’impianto di Fukushima – ha spinto il governo di Tokyo a prendersi “una pausa di riflessione”, com’è stata definita dai media giapponesi, sul nucleare. Ma lentamente, negli ultimi dieci anni, il fronte antinuclearista è diventato forte, influente sull’opinione pubblica, e soprattutto bipartisan. Allo stesso tempo è cresciuto anche il dibattito sulla sicurezza ambientale e il clima.
Per spiegare come i cambiamenti climatici hanno un effetto sulla vita quotidiana, in Giappone si usa spesso l’esempio della fioritura dei ciliegi. È una delle tradizioni più antiche del paese del Sol levante: in occasione dell’hanami si organizzano festival e pic-nic sotto agli alberi e si osservano i fiori di ciliegio sbocciare, il simbolo della rinascita dopo il lungo inverno. Ogni anno, l’Agenzia meteorologica giapponese tra marzo e aprile pubblica il calendario delle fioriture, che varia a seconda delle diverse aree dell’arcipelago, ma negli ultimi anni la primavera arriva sempre prima, carica di umidità. Le piogge improvvise rovinano la festa, e la fioritura. Non solo. Secondo l’ultimo report del governo di Tokyo, nella prefettura di Okinawa, l’arcipelago più a sud del Giappone, rispetto al 1930 ci sono un mese e mezzo in più di giorni di caldo estremo (si chiamano moshobi, i giorni in cui la temperatura supera i 35 gradi Celsius).
Nella prefettura di Hokkaido, quella più a nord, famosa per i suoi festival invernali e i resort sciistici, c’è il 14 per cento in meno di neve. In tutto il Giappone le piogge torrenziali sono sempre più frequenti, così come gli eventi di siccità, e soprattutto i tifoni: la stagione delle tempeste tropicali va da maggio a fine settembre, ma negli ultimi anni sono diventate più potenti, più frequenti. I cambiamenti climatici toccano i cittadini giapponesi nella loro quotidianità. È più o meno quello che è accaduto negli ultimi quindici anni in Corea del sud, dove nell’area della capitale, Seul, periodicamente si assiste al fenomeno dell’airmageddon, giornate in cui il governo chiede ai cittadini di restare al chiuso per via dell’alta concentrazione di polveri sottili nell’aria: quelle industrie che hanno reso la Corea del sud la quarta economia asiatica, la Tigre pronta al sorpasso del Giappone, sono le stesse che oggi costringono i bambini a giocare al chiuso, i consumatori a fare shopping sottoterra.
Tutela dell’ambiente, ma anche dello sviluppo
Anche il Partito comunista cinese ha capito che la sicurezza ambientale, direttamente collegata a quella sanitaria, è un tema sensibile per l’opinione pubblica, ma in ogni vertice internazionale il leader Xi Jinping sottolinea il fatto che è necessario “bilanciare la protezione dell’ambiente e lo sviluppo economico, affrontare il cambiamento climatico ma anche salvaguardare il sostentamento delle persone”. Lo scorso anno Xi ha annunciato che la Cina raggiungerà la neutralità carbonica entro il 2060, ma solo dopo aver raggiunto il piccolo delle emissioni entro il 2030. Pechino ha fatto capire chiaramente che non è il momento di abbandonare i combustibili fossili, e ha addirittura lasciato intendere che nei prossimi quattro anni ci sarà un’espansione del loro utilizzo. La “prosperità comune”, cioè la strategia politica di Xi dove la ricchezza è diffusa, si può raggiungere soltanto con un piano d’azione a lungo termine. Un documento governativo pubblicato pochi giorni prima della COP26 di Glasgow mostrava come, parallelamente all’utilizzo del carbone, la Cina vuole “ridurre gli sprechi, promuovere ancora le energie rinnovabili e i combustibili non convenzionali, riformare la rete elettrica”. Entro i prossimi dieci anni l’energia cinese prodotta da impianti eolici e solari dovrebbe raggiungere i 1.200 gigawatt.
Il sistema politico cinese consente l’utilizzo di trasformazioni a tappe forzate con cadenza quinquennale, secondo rigidi protocolli che non hanno conseguenze elettorali. Molto diversa è la situazione nelle democrazie d’Asia.
Il ministero dell’Ambiente giapponese non era mai stato particolarmente ascoltato a Tokyo. Fino a quando l’ex premier giapponese, Shinzo Abe, nel 2019 ha deciso di trasformarlo nel volto pubblico, anche internazionale, del suo esecutivo. In uno degli ultimi rimpasti di governo ha nominato ministro una star della politica nipponica, Shinjiro¯ Koizumi, figlio del popolarissimo ex premier Junichiro¯ Koizumi. Koizumi junior è giovane, non ha nemmeno quarant’anni, parla un inglese fluente ed è molto telegenico quando arriva ai summit internazionali sul clima. In una delle sue prime uscite pubbliche disse che la guerra ai cambiamenti climatici doveva essere “cool” e “sexy”.
Ma a parte la mediaticità delle sue espressioni, non ha mai parlato di una concreta strategia di riconversione del Giappone. Suo padre Junichiro¯ Koizumi, mentore politico di Abe, è tra i conservatori più famosi della storia moderna nipponica, anche perché da dieci anni ormai è fuori dalla politica e si è trasformato in un attivista antinuclearista. Il Partito conservatore giapponese vede quindi nella transizione energetica una scissione al suo interno, che non è solo ideologica ma anche pratica.
Da un lato ci sono i pentiti, quelli che vogliono fare a meno del carbone – quasi tutto d’importazione – e anche “dell’energia più pulita attualmente a disposizione, il nucleare”, perché Fukushima avrebbe “dimostrato che la sicurezza assoluta non si può avere”. Secondo gran parte degli ideologi di questa corrente, il Giappone, costretto a ripensare da zero il suo sistema energetico, potrebbe essere d’esempio per le altre potenze industrializzate. Dall’altro lato c’è la corrente dell’esecutivo che vorrebbe far ripartire l’economia giapponese il prima possibile, con il nucleare. Già una dozzina di reattori in tutto il paese sono stati fatti ripartire, e Kishida ha detto: quando si tratta di fabbisogno energetico bisogna essere pragmatici. Una delle sue prime visite dopo essere stato nominato primo ministro è stata all’impianto nucleare di Fukushima.
Gli sforzi della Corea del Sud
Il 1° settembre scorso la Corea del sud è diventato il quattordicesimo paese al mondo ad avere una legge sulla neutralità carbonica. Il presidente democratico Moon Jae-in, che a marzo terminerà il suo mandato, ha voluto che il Parlamento legiferasse in materia in modo che gli obiettivi – ridurre le emissioni di gas serra del 35 percento o più rispetto ai livelli del 2018 entro il 2030 e raggiungere le zero emissioni entro il 2050 – non potesse essere cambiato dai governi che verranno. Per la Corea del sud, un’economia che negli ultimi anni sta crescendo rapidamente e si sta rilanciando sulla scena globale, è una sfida piuttosto faticosa: è il 13° più grande emettitore al mondo e rappresenta circa l’1,38 percento delle emissioni mondiali. Ma è soprattutto il tipo di economia che sarà difficile da decarbonizzare, perché dipende da industrie come quelle dell’acciaio, dell’auto e dei semiconduttori, che fanno un gigantesco uso di carbon fossile e fa affidamento sui combustibili fossili per il 67 percento della produzione di elettricità del paese. Inoltre, in Corea del sud le emissioni di anidride carbonica pro capite ammontano a 11,7 tonnellate, uno dei più alti livelli del mondo. Le rinnovabili nel paese sono ancora una opzione costosa e poco pratica, rappresentano solo il 5,5 percento della produzione energetica e, secondo la Federazione degli industriali sudcoreani, la conformazione geografica unita all’alta densità abitativa impedisce la costruzione di nuovi impianti. La necessità di limitare le importazioni per rafforzare l’industria coreana, soprattutto nei settori chiave, porterà inevitabilmente il governo di Seul a considerare l’opzione nucleare. Forse accadrà dopo la fine del mandato di Moon, che nel 2016 fece la sua campagna elettorale promettendo di non costruire ulteriori impianti atomici oltre ai quattro già esistenti (il 22 percento del fabbisogno nazionale).
In ogni caso, l’Asia orientale, e soprattutto le democrazie di quel quadrante, sono il posto a cui guardare per capire come la politica – più pragmatica e meno prona agli slogan – reagirà alla sempre più forte richiesta di cambiamento da parte dell’opinione pubblica, ma senza dimenticare la crescita.
*è giornalista del Foglio dal 2010, dove segue soprattutto le notizie dell’Asia orientale. Dal 2017 è autrice della newsletter Katane, la prima in italiano sulle vicende asiatiche. è autrice del libro “Sotto lo stesso cielo” (Mondadori).
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre 2021 di WE World Energy. WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell’energia pubblicato da Eni – diretto da Mario Sechi – che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore.