Il tessuto economico italiano è ricco di piccole e medie imprese a controllo familiare, che spesso hanno sofferto i passaggi generazionali; tante volte, tuttavia, anche nelle principali famiglie del capitalismo italiano, come ricorda lo scontro sul futuro del gruppo Espresso (Gedi) fra l’ingegner Carlo De Benedetti e i figli, questi passaggi hanno portato a vere e proprie rotture. Ecco alcuni esempi.
AGNELLI – È il 24 gennaio 2003 quando Giovanni Agnelli muore nella sua casa sulla collina torinese. Per la sua successione da tempo è stato lui stesso a scegliere il nipote John Elkann, dopo la prematura scomparsa di Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, nel 1997. La scelta di John Elkann, allora ventunenne, viene condivisa dalla famiglia, che lo accompagna fino all’ascesa al vertice di Exor e Fca ed anche ora riconosce gli importanti risultati realizzati sotto la sua guida. I dissidi principali, in quella che è una delle più importanti dinastie italiane, si manifestano dopo la morte dell’avvocato ma riguardano la sua eredità. Una battaglia giudiziaria viene intrapresa dalla figlia di Gianni, Margherita, che fa causa alla madre Marella, a Gianluigi Gabetti, a Franzo Grande Stevens e a Siegfried Maron. Margherita, pur avendo già raggiunto un accordo sull’asse ereditario del padre, chiede un nuovo quadro chiaro e completo del patrimonio che ha lasciato. La prima udienza in tribunale si svolge nel 2008, ma un anno dopo i giudici di Torino dichiareranno inammissibili tutti i 48 capitoli di prova presentati da Margherita. Con la definitiva parola della Corte di Cassazione, del 2015, la battaglia per l’eredità dell’Avvocato è definitivamente chiusa e i rapporti della figlia dell’Avvocato, inizialmente freddi con il resto della famiglia, a poco a poco si normalizzano.
CAPROTTI – Bernardo Caprotti contro il figlio Giuseppe, e poi contro quest’ultimo e la sorella Violetta, entrambi frutto del primo matrimonio del fondatore dell’Esselunga. Uno scontro decennale che ha visto come teatro le aule del tribunale, e che si è protratto anche dopo la morte nel settembre del 2016 di Bernardo tra i figli di primo letto e Marina Sylvia, la figlia nata dall’unione con la seconda moglie, Giuliana. Il motivo e’ sempre stato lo stesso: la visione sul futuro dell’Esselunga e il controllo di un impero da oltre 7 miliardi di euro e piu’ di 22 mila dipendenti, il primo gruppo italiano della grande distribuzione, un marchio-icona per la spesa di milioni di consumatori soprattutto del Nord Italia. La dynasty della famiglia Caprotti è al tempo stesso epopea e sofferenza che incarna uno dei caratteri distintivi dell’imprenditoria a carattere familiare tipica dell’Italia, con al vertice quello che spesso è un autentico ‘genio’ creativo e a valle le generazioni successive, schiacciate dal peso di chi non si rassegna a tramandare agli eredi ciò che eleva a rango di figlio, oltre che da una sensazione di inadeguatezza che affonda la spiegazione nei miti della Grecia classica.
La prima pagina della soap opera caprottiana risale al 1996 quando, con lo scopo di preparare la successione, Bernardo cede le proprie quote a Giuseppe, Violetta e Marina Sylvia, conservando l’usufrutto sulla metà delle azioni e il diritto di voto in assemblea, in modo da continuare a comandare. Dopo 15 anni il colpo di scena: Bernardo ci ripensa e, senza neanche avvertirli, si riprende le quote societarie assegnate a Giuseppe e Violetta. Il padre accusa Giuseppe di essere circondato da “un ciarpame manageriale” infedele e inadeguato a gestire l’azienda, e soprattutto di voler vendere a colossi internazionali la sua creatura. Giuseppe si difende, respinge al mittente le accuse, sospetta che alla base di tutto ci siano le trame per “dare tutto” alla seconda moglie e alla figlia Marina Sylvia. Al dramma dell’impero perduto, si aggiunge il trauma del figlio ‘rifiutato’: “La sua opera di demolizione psicologica mi ha paralizzato per anni”, afferma in una rara intervista di repertorio Giuseppe che non può dimenticare come fu messo alla porta, in modo che a distanza di anni ancora l’offende: “Se non esci da qui, chiamo le guardie”. Come un ladro qualunque, non come un figlio destinato a subentrare al padre.
Sta di fatto che parte una causa civile lunga anni e anni, su cui si abbatte, come un condono tombale, la morte stessa di Bernardo. Con il corpo ancora caldo del fondatore dell’Esselunga, inizia una triste e tanto tesa processione allo studio del notaio Marchetti, custode delle più delicate vicissitudini familiari e imprenditoriali della finanza milanese che conta. Puntuali arrivano i ricorsi, le comunicazioni affidate ai principali studi legali del capoluogo lombardo, le notizie fatte filtrare attraverso i mezzi di informazioni, perché inevitabilmente il testamento non accontenta i figli di primo letto: il 66,7% della holding che controlla il gruppo, infatti, va all’asse ereditario Giuliana-Marina. Nei mesi successivi un accordo tra le parti si concluderà con l’ulteriore rafforzamento nella società della moglie e di Marina Sylvia e la liquidazione di Giuseppe e Violetta delle loro restanti quote, sancendo la loro definitiva uscita di scena e la loro definitiva, ma forse non più amara, sconfitta.
MARZOTTO – All’apice della sua storia fu un gruppo da oltre 1 miliardo e mezzo di fatturato, con un cognome, Marzotto, che voleva dire moda, jet set e molto altro. L’impero tessile di Valdagno (Vicenza) è un chiaro esempio di cosa si rischia con il passare delle generazioni, quando famiglie già numerose si allargano ed emergono visioni e sensibilità diverse. Oggi il gruppo, che controllava marchi come Valentino e Hugo Boss, è diviso e i vari componenti della famiglia si occupano di attività nei settori più disparati. A Valdagno c’è ancora l’azienda dei filati, guidato dal ramo che fa capo ad Andrea Donà delle Rose e ale figlie di Giannino, di Umberto e di Marta Marzotto; a Fossalta di Portogruaro (Venezia) ci sono Paolo Marzotto e i suoi discendenti, con la loro Zignago Vetro e le cantine Santa Margherita. Matteo Marzotto, figlio di Marta e uno degli esponenti più in vista della famiglia, ha rilanciato la maison Vionnet per poi rivenderla ed è entrato in Dondup, oltre a essere sempre presente nella holding che controlla il gruppo di Valdagno.
BENETTON – Anche un’altra delle grandi dinastie venete, quella dei Benetton, ha vissuto passaggi turbolenti e, prima delle discussioni dell’ultimo anno, momenti tesi ci sono stati quando Alessandro Benetton, figlio del patriarca Luciano, decise di rilanciare il gruppo di moda che porta il nome della famiglia e che è stato alla base delle sue fortune. La scelta, presa nel 2012, fu accompagnata dalla consapevolezza, espressa chiaramente, di “aver fatto per la prima volta qualcosa che non gli conveniva”, e portò a scontri con lo zio Gilberto e Gianni Mion, lo storico manager di famiglia ora tornato alla guida della holding edizione. La rottura arrivo’ dopo poco: formalmente Alessandro è stato a capo della United Colors of Benetton per appena 2 anni.
TABACCHI – Minore fortuna hanno avuto i Tabacchi: il loro impero nel mondo degli occhiali si è sfaldato, con il ramo di Vittorio che è uscito dalla Safilo, ceduta al fondo olandese Hal, e quello di Dino che ha ceduto la catena Salmoiraghi Viganò a Luxottica. All’origine della perdita dell’azienda la scelta da parte di Vittorio di liquidare oltre a Dino (com’era noto a tutti, anche se si chiamava Ermenegildo) e all’altro fratello Giuliano le loro quote in Safilo, dopo alcune divergenze sul futuro e soprattutto sul ruolo dei figli. Al tempo stesso il debito fatto per portare avanti la liquidazione dei due rami appesantirà per lunghi anni la struttura finanziaria del gruppo, fino alla necessità di una ricapitalizzazione che manderà i Tabacchi dal 40 al 10%; in mezzo un paio di cambi di management, compreso un passaggio al timone del gruppo da parte di Massimiliano, figlio di Vittorio.
COIN – Simile sorte è toccata ai Coin, eredi di un impero della grande distribuzione: anche qui c’è un Vittorio, che però si scontra con Piergiorgio. Ci sono gli anni della crescita impetuosa, alla fine del secolo scorso: prima viene comprato il ramo abbigliamento della Standa, poi arriva la quotazione, infine l’acquisizione di Kaufhalle in Germania. Una mossa, quest’ultima, che non dà i frutti sperati e che acuisce i dissapori all’interno dei due rami della famiglia veneziana, con Piergiorgio che viene estromesso dall’azienda, controllata da una holding in cui i due gruppi sono rappresentati pariteticamente. Nel 2005, dopo alcuni tentativi di rimetterlo in carreggiata compresa la cessione di una minoranza della controllata Ovs, la quota di controllo del gruppo, che aveva toccato 1,2 miliardi di fatturato ma era finito in rosso, viene rilevata per 181 milioni dal fondo Pai Partners.
DEL VECCHIO – Anche il patron del gigante dell’occhialeria, Leonardo Del Vecchio, ha avuto i suoi motivi di preoccupazione, anche se in questo caso la partita ha riguardato più i rapporti con le mogli che con i figli direttamente. L’imprenditore, noto per aver detto che “i figli devono restare lontani dall’azienda, dato che non si possono licenziare”, ha dovuto ridisegnare l’assetto del gruppo proprio in virtù della necessità di bilanciare le pretese delle diverse parti e di garantire un futuro unitario all’azienda. Il 25% della holding Delfin è stato destinato all’ultima moglie Nicoletta Zampillo, il 75% invece è diviso fra i 6 figli. Tre di questi – Claudio, Marisa e Paola, sono frutto delle prime nozze, con Luciana Nervo; Leonardo Maria è figlio della Zampillo, con cui il magnate si è poi risposato; ci sono poi Luca e Clemente, nati dalla relazione con Sabina Grossi.
MERLONI – Ma non sono solo gli imprenditori del Nord ad aver avuto difficoltà nel passaggio generazionale: anche in casa Merloni, la famiglia marchigiana a cui faceva capo il gruppo degli elettrodomestici Indesit, i contrasti, a lungo sopiti, sono esplosi con la malattia di Vittorio, figlio di Aristide Merloni. Con il passaggio generazionale, avvenuto nel 2010, ci furono diversi scontri fra i quattro figli e nel 2014 l’azienda è stata venduta agli americani di Whirpool.