“La Cina ha mostrato la sua spada in meno di 24 ore, con la stessa forza e la stessa proporzione di quella degli Stati Uniti”. Lo scrive oggi, giovedì 5 aprile, il Quotidiano del Popolo, sfoderando l’orgoglio nazionale per la velocità della risposta cinese – 11 ore – alla proposta di dazi proveniente da Washington.
Se oltre 1.300 prodotti tecnologici di importazione cinese andranno incontro ai dazi di Trump, sono 106 quelli elencati nella lista diffusa dal governo di Pechino, tra cui le maggiori voci di importazione: dai semi di soia, agli aeromobili (la Cina è tra i maggiori clienti di Boeing), alle automobili. Pechino e Washington hanno alzato barriere su 50 miliardi di dollari ciascuno. Del resto la Cina aveva promesso reciprocità in un guerra che dice di non aver mai voluto.
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Oggi il governo cinese, per bocca dell’ambasciatore negli Usa, Cui Tiankai, ha chiesto agli Stati Unti di accantonare l'esito delle indagini dello Us Trade Representative sulle presunte violazioni della proprietà intellettuale da parte di gruppi cinesi a danno delle imprese Usa.
L’imposizione di dazi sui semi di soia è una lama a doppio taglio: oltre a colpire i produttori americani potrebbe avere ripercussioni anche sui consumatori cinesi. Un aumento del prezzo della soia inciderebbe sul prezzo della carne di maiale (i suini si nutrono di soia). “La Cina con i dazi sull’importazione di semi di soia fa male ai consumatori cinesi, ma fa più male a Donald Trump perché colpisce la sua base elettorale”, dice Michele Geraci, economista, docente di finanza alla Nottingham University Business School China di Shanghai.
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“I produttori di soia del Midwest vengono penalizzati più di tutti”, elabora Geraci. “La Cina – continua – può comprare più soia dal Brasile, che nel 2012 ha surclassato gli Usa come maggior fornitore. La concorrenza non è tra produttori americani e cinesi, perché la Cina produce un quarto di quello che consuma: questa mossa di Pechino piuttosto crea zizzania tra Usa e Sud America”.
C’è un grande ma: il Brasile, che si sta leccando i baffi (la quota di export di soia verso la Cina ha toccato la cifra record nel 2017), non può aumentare la produzione per sopperire alla quota che Pechino importa dagli Usa.
In questo quadro nessun Paese esce davvero vincitore.
“La Cina però può tentare la riforma agraria”, spiega Geraci. L’approvvigionamento domestico è il grande dilemma di Pechino. Guardiamo i numeri. La Cina produce 15 milioni di tonnellate di soia e ne consuma circa 70 milioni (dati del 2011). “La guerra dei dazi – sottolinea l’analista – è un’occasione da non perdere per accelerare la riconversione della propria struttura produttiva agraria”. E’ di pochi giorni fa la notizia di maggiori sussidi ai produttori cinesi di soia per tagliare le riserve di cereali (250 milioni nel 2017).
Meno grano, più soia
Per capire bisogna fare un passo indietro, alla fine degli anni Ottanta. All'estate del 1989, per la precisione. “L’inflazione elevata – spiega Geraci – è stata tra le cause delle proteste democratiche del 4 giugno sfociate in sanguinosa repressione. Solo dopo il governo ha deciso di aumentare la produzione di grano promuovendo politiche che mirassero ad abbassare i prezzi dei cereali (riso, grano, ecc: alimenti di base)”. Sono anni in cui il reddito procapite è molto basso e l’incidenza della spese per il cibo molto alta.
Nel frattempo le riforme di apertura promosse da Deng Xiaoping hanno avviato il miracolo economico e così dieci anni dopo, alla fine degli anni novanta, “l’aumento del reddito procapite si riflette sull’incremento della domanda di carne e quindi di semi di soia. La Cina inizia a consumare i semi oleosi: commodity fondamentale per la produzione di olio (di cui i cinesi sono grandi consumatori) e per l’alimentazione dei suini (di cui la Cina è il maggior produttore e consumatore)”. E' a questo punto che la Cina si trova in deficit di soia e inizia a importarla da fuori.
Nel 2017 la Cina importa 50,93 milioni di tonnellate dal Brasile (il 54% del totale), 32,9 milioni dagli Stati Uniti (il 34,4%), la quota più bassa dal 2006, e circa 8 milioni dall’Argentina.
“La riconversione non è immediata – dice Geraci – si parla di un effetto di medio termine. Ma la Cina è una economia pianificata e per farlo le bastano due anni”.
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Una guerra che costa solo 15 miliardi
I dazi sono stati annunciati, non sono ancora concreti. “Al termine di 60 giorni avremo l'imposizione delle nuove tariffe", ha tuonato oggi il consigliere di Donald Trump alla Casa Bianca, Peter Navarro, considerato un 'falco', sottolineando che “se non agiamo ora non avremo futuro”.
La Casa Bianca, tra i dazi su acciaio e alluminio e l'ultima lista vuole applicare balzelli per un valore complessivo di quasi 60 miliardi sulle merci importate dalla Cina. Lo stesso ammontare annunciato da Pechino, mettendo insieme le due liste (128 da 3 miliardi e 106 da 50 miliardi).
Quanto valgono questi dazi sul totale dell’importazione? Si tratta di 60 miliardi di merci su cui vengono applicati dazi fino al 25%. Tradotto in dollari: 15 miliardi. “Non tantissimo”, spiega Geraci. La Cina ha un surplus commerciale nei confronti degli Usa di 370 miliardi, cioè 20 volte il valore dei dazi.
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Letta così, la guerra commerciale sembra una scaramuccia. “Se ci si ferma qui non succede niente di grave”, spiega Michele Geraci.
Non è una guerra economica ma una battaglia geopolitica. Con obiettivi diversi (lo spiega qui il Foglio)
“Trump punta a ristabilire l’ordine del commercio mondiale”, dice Geraci. “Il libero commercio tende a penalizzare le fasce più deboli della società, quelle di cui Trump ha promesso di occuparsi”. Gli operai e gli agricoltori del Midwest che hanno votato il presidente americano e che la Cina sapientemente vuole colpire. “Trump – continua Geraci – colma il vuoto lasciato dalla sinistra, che da protettrice delle fasce vulnerabili, è diventata elitaria e gauche caviar”. Trump, in vista delle primarie del 2020, deve ridistribuire la ricchezza, concedere sussidi ai produttori colpiti dai dazi cinesi con i soldi che si liberano dalla riduzione del deficit.
In altre parole, l’obiettivo dell’inquilino della Casa Bianca “non è far male all’economia cinese, ma riscrivere le regole del commercio internazionale, convinto che la Cina non ne faccia parte e che gli accordi di libero scambio siano dannosi per gli Stati Uniti”, dice Geraci.
Xi Jinping porta avanti una battaglia completamente diversa. “Vuole porsi come paladino del libero mercato per continuare a esportare prodotti Made in China in giro per il mondo”, spiega l’economista.
Trump colpisce i settori strategici del piano Made in China 2025. Ma lo schiaffo è relativamente debole. “La Cina non esporta commodities, ma prodotti manifatturieri, acciaio e alluminio”. Proprio i settori nel mirino della Casa Bianca (1.333 prodotti su cui applicare tasse del 25%: la più dura iniziativa unilaterale messa in campo da Donald Trump). “La Cina, per dire, esporta solo un miliardo di acciaio”, spiega l’economista.“ E' di 450 miliardi di dollari il valore complessivo dell'export cinese negli Usa, un mercato grande per la Cina che però punta anche su altri mercati in crescita: Asia e Africa”, dice Geraci.
“Questa pseudo guerra fatta con quattro soldi e dall’impatto minimo è già quasi finita”, dice l’economista. Ragioniamo sui numeri. “La Cina – calcola Geraci – importa dagli Usa 130 miliardi. 60 sono già oggetto di dazi, ne restano all’incirca altri 70 su cui imporre balzelli, poi la guerra è finita. I dazi dal 25% possono salire al 60%, ma la Cina ha già colpito metà delle importazioni”. Che valgono, abbiamo visto, 15 miliardi. Noccioline. E siamo già a metà. Questa guerra commerciale ha una fine naturale. “Ci si può far male ma non troppo”.
“Una guerra che ha iniziato la Cina 18 anni fa quando è entrata nel Wto senza rispettarne le regole”, ha detto Geraci. “Pechino non dovrebbe fare dumping monetario, ovvero tenere bassi i tassi di interesse come ha fatto per venti anni. Trump ha ragione. Nel botta e risposta la Cina si difende facendo appello alla reciprocità: i dazi sono più alti perché 'siamo ancora un Paese in via di sviluppo', dice Pechino, che considera ingiusta qualsiasi misura protezionistica rivolta ai propri prodotti. Una posizione inaccettabile per Trump che pretende coerenza: 'allora non fate libero scambio e comportatevi da tale'".
Mentre la Cina, scaltramente, fa appello proprio al Wto (oggi ha presentato ricorso per i dazi su alluminio e acciaio), "l’obiettivo di Trump è indebolirlo, uscire da tutti gli accordi, dal Nafta all’Organizzazione Mondiale del Commercio, e negoziare nuove intese bilaterali, come dovrà fare la Gran Bretagna dopo il Brexit", dice l'economista.
“Trump vuole fare un world-exit”. Previsioni? “Ancora un piccolo passo e poi il conflitto si assesterà. Sarà il Wto a decidere sui dazi”, conclude Geraci.