È la gig economy, bellezza. Ovvero il business di quelle imprese digitali (da Uber alle app che consentono di ordinare cibo a domicilio dai ristoranti) che utilizzano il lavoro a chiamata e i cui dipendenti risulterebbero lavoratori autonomi.
I rider italiani di Foodora non erano però d'accordo e hanno fatto causa all'azienda per vedersi riconoscere lo status di subordinati e i relativi diritti, dalla retribuzione minima alle ferie pagata. Il Tribunale del Lavoro di Torino ha però dato loro torto lo scorso 11 aprile, con una sentenza che ha fatto molto discutere e ha scritto una pagina di una storia ancora tutta da scrivere: quella dei diritti dei lavoratori in un'economia sempre più liquida.
Le motivazioni di quella sentenza sono state pubblicate. E, pur formalmente corrette, rimandano a una sentenza degli anni '80 sui pony express, come ha spiegato all'AGI il segretario generale della Nidil-Cgil Claudio Treves, che è discutibile applicare in maniera letterale a un contesto lavorativo radicalmente cambiato dai mutamenti tecnologici intervenuti nel frattempo.
Le motivazioni
Secondo il Giudice del Lavoro del capoluogo piemontese, i rider non sono dipendenti in quanto:
- Non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa.
- I «nuovi strumenti di comunicazione» quali «e-mail […] internet[…] apposite “app” dello smartphone» sono stati utilizzati per dimostrate esigenze di coordinamento e così in particolare: la determinazione di luogo e di orario di lavoro; la verifica della presenza dei rider nei punti di partenza; le telefonate di sollecito e rilevazione della posizione del rider finalizzate al rispetto dei tempi di consegna pattuiti.
- Sono risultati esclusi nei fatti il «costante monitoraggio della prestazione», l’obbligo di seguire percorsi predefiniti e di prolungare l’orario di lavoro.
- È stato escluso l’esercizio di qualsiasi potere disciplinare da parte dell’azienda nei confronti dei riders. È Invece emerso che i rider potessero non presentarsi nonostante fosse stata confermato la loro presenza, utilizzando la funzione "swap" oppure senza avvisare (cd. no show), senza alcun tipo di sanzione.
- È stata esclusa la violazione delle norme antinfortunistiche.
- Sul controllo a distanza il Tribunale ha ritenuto "che le applicazioni dello smarthphone venivano utilizzate dai ricorrenti per rendere la prestazione lavorativa".
- Con riguardo alla privacy ha ritenuto esauriente l’informativa sottoscritta dai riders al momento della stipulazione del contratto di collaborazione.
L'azienda: "Veicolate informazioni non corrette"
"Da sempre, rispetto alla prassi tipica del settore, Foodora ha scelto di stipulare con i rider contratti di collaborazione coordinata e continuativa che, a differenze di collaborazioni in ritenuta d’acconto o con partita IVA, prevedono importanti tutele come i contributi Inps e l’assicurazione Inail in caso di infortuni sul lavoro, oltre ad una polizza assicurativa in caso di danni contro terzi che la società tiene a suo carico", sottolinea l'azienda in un comunicato, "nel corso dei mesi la nostra controparte ha cercato di spostare altrove la sede della discussione da quella sua propria, che è stata il giudizio avanti al Tribunale del lavoro, veicolando informazioni non corrette. Basti pensare al fatto che si è continuato a insistere con la tesi dell’allontanamento o addirittura del licenziamento ritorsivo quando a tutti i ricorrenti era stata proposta, prima della scadenza contrattuale, la sottoscrizione di un nuovo contratto di collaborazione. Sono i ricorrenti che hanno deciso liberamente di non proseguire la collaborazione e ciò è emerso nel corso del giudizio".
Cgil: "Applicata in maniera pedissequa una sentenza degli anni '80"
Per Claudio Treves, segretario generale della Nidil-Cgil, la sentenza di Torino "applica in maniera pignola e pedissequa un precedente riferito a una sentenza di metà anni '80 sui pony express, una definizione di lavoro subordinato che come fonte ha la Cassazione, quindi inattaccabile, ma interpretata in maniera pedissequa e restrittiva", ovvero senza tenere conto dei mutamenti tecnologi intervenuti nel frattempo.
Non solo la radio dei pony express è incomparabile al carattere "invasivo" dell'algoritmo che monitora i rider, "un'ingerenza della tecnologia che bisogna interpretare in maniera creativa", spiega Treves all'AGI, ma "se applicassimo questa definizione a tutti i lavoratori dipendenti che hanno un grado di autonomia appena passabile, molti di essi non potrebbero essere considerati subordinati".
Il precedente di Uber
Un riferimento, secondo Treves, può essere invece la sentenza del tribunale di Londra che, lo scorso novembre, ha respinto l'appello di Uber contro il pronunciamento che negava lo status di lavoro autonomo dei suoi "driver". La corte britannica non aveva utilizzato il termine "employees", ovvero subordinati a tutti gli effetti, ma "workers", una categoria intermedia titolare di parte delle tutele garantite dai subordinati. Una fattispecie che, nel contesto della normativa italiana, può essere inquadrata nel lavoro a somministrazione.
"Sui diritti si è creato un deserto culturale"
Fa infine riflettere, conclude il segretario generale della Nidil, che i rider non si siano affidati a un sindacato confederale per il ricorso, sintomo di uno scollamento tra le parti sociali e le generazioni più giovani, a volte del tutto ignare dei propri diritti: "È l'epifenomeno di una lunga stagione nella quale è stato detto che le tutele non servivano e bisognava guadagnarsi un posto magari scalciando il proprio simile; sui diritti dei lavoratori si è creato un deserto culturale scientemente implementato da una generazione di 'cattivi maestri', usando un termine del secolo scorso. Ciò determina la difficoltà che il sindacato incontra nel rapportarsi a questi lavoratori".